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domenica 21 novembre 2010

Tirrenia... Siamo alla frutta? no.. ci fosse almeno il ristorante

I Sardi stanno subendo una regressione evoluzionistica senza precedenti. Da Italiani minori, status ottenuto nel 1861 e riaffermato saldamente grazie alla complicità ferocemente sadomasochistica del signor Emilio Lussu nel 1945, la nostra involuzione sta raggiungendo il livello più simile alla dimensione umana, del mondo animale, il suino.

Ora è vero che i maiali sardi sono razza pregiatissima, dal sapore eccellente, ma da qui a traslarli, per metominia, a tutta la popolazione dell'isola, ne passa davvero tanto.

La continuità territoriale è di certo un diritto acquisito e finora garantito, a detta di chi ci governa, ciò che in verità manca, rispetto all'Italia è la continuità di dignità.

Provate a prenotare una nave per Palermo. Unica compagnia disponibile, Tirrenia. Il sistema vi rimanda tre o quattro volte, in attesa della messa in disponibilità. Primo disagio. La società è in amministrazione straordinaria, e va bene, inghiottiamo e procediamo alla prenotazione. Il costo totale è esorbitante, non straordinario, ma normale. Duecentocinquanta euro per due persone e auto al seguito.

E va bene, inghiottiamo anche il prezzo, la società è in A.S. ma fornirà l'ordinario servizio di trasporto, pensiamo.

Quando saliamo sulla nave ci rendiamo conto di che cosa significhi. E' una nave merci, non c'è un bar, non c'è il ristorante, le cabine sono in pessime condizioni. La nave puzza di maiali, di bestie, di prodotti chimici.

La Tirrenia riceve ogni anno contributi pubblici statali e regionali per garantire il trasporto dei residenti sardi nel resto d'Italia. Gode di una situazione di monopolio. Nonostante questo è in via di fallimento. Da sempre non garantisce occupazione al popolo sardo. Da sempre non garantisce un servizio cortese ed efficiente, pulito e di qualità.

In un certo senso ci eravamo anche abituati a questa sorta di degrado, ci poteva servire per vederci migliori, per immaginare qualcosa di diverso, di gestito direttamente da noi sardi. Ma il declassamento di specie è davvero troppo.

Chissà, forse faremo fatica ad abituarci ad essere trattati da maiali. Forse.

Cridar Z - Numero 1 Pagina 1 - Lame di luce rossa

Cridar uscì sbattendo la porta. L’ufficio del direttore era separato dall’ampio open space solo attraverso un sottile cartongesso e per un attimo i pochi colleghi presenti ebbero la sensazione che potesse crollare. Non era insolita a gesti di stizza, ma forse questa volta aveva davvero esagerato. E tutto per uno stupido lavoro. A Cridar non andava giù, proprio non riusciva a capire. Perchè mandare lei a Sassari? Era l’una di notte, un omicidio, prostituta sgozzata, a fare foto con il flash probabilmente, e a non dormirci la notte. Un lavoro privo di aspirazione artistica, solo documentare, cronaca, mai sopportata!
Cridar che andava a teatro alla prima del lirico. Cridar che seguiva le mostre e faceva ritratti agli attori. Cridar che si lanciava nei concerti come se fosse una reporter di guerra.
Il rombo della sua moto fu aggressivo come mai. Ducati rossa fiammante appena lavata, il colore opaco brillava nella luce gettata da un lampione malandato della città algherese.
La Carlo Felice non fu molto clemente. Buche, così tante che le venne in mente il suo ultimo servizio fotografico: l’inaugurazione di un campo da golf nei pressi di Pula.

- Mi vogliono buttare fuori

Pensò. Era chiaro. Una lenta scalata verso il basso, una discesa rapida e controllata dall’alto. Stava precipitando e non sentiva neppure l’ebbrezza di una vertigine a cui appendersi. Ci doveva essere qualcosa di sballante ad essere declassata. Ragionò sui possibili scenari che le si aprivano. Lavorare meno, occuparsi meno della luce, della qualità della posa e della post produzione. Ma nulla di tutto questo la eccitava. Nulla di ciò che non fosse fare le cose che aveva sempre fatto, le dava un briciolo di adrenalina.
Quando arrivò sul posto, il primo suggerimento tecnico che le diede la scena fu quello di vomitare. Avrebbe voluto rilasciare accanto ai cassonetti della pattumiera, non troppo distanti, in quel vicolo buio e dagli odori di plastica muffita, che si sommavano insolenti al puzzo di cadavere, tutto il kebab che aveva mangiato la sera precedente.
Peccato lo avesse ampiamente digerito.
Si avvicinò al corpo senza vita sospirando.

- Se vogliono che mi licenzi, così hanno trovato il modo giusto

Davanti a lei una decina di altri reporter, ben piazzati, a spintonarsi per avere la posizione migliore, quella più vicina, chi cercava di mettere ben a fuoco lo schizzo di sangue sotto la gola, chi invece si concentrava sull’occhio vitreo.
Cridar capì solo allora che cosa significasse, banalmente parlando, essere un fotografo. Il suo mondo immaginario, fatto di luoghi virtuali pieni di gente col berretto che sfidava le ombre per uno scatto perfetto, si estinse come si può estinguere una stella che ha esaurito il proprio corso, e lasciò un buco nero nello stomaco e nel cervello della giovane, che neppure un Montenegro con ghiaccio sarebbe riuscito a colmare.
Si allontanò una decina di metri e cambiò obiettivo. Mise uno zoom abbastanza potente, un 200 di profondità massima e da lontano puntò il corpo esangue. C’era luce sufficiente. i fari delle volanti della polizia, i flash abusati di quegli zombie e beceri esecutori. Si poteva fare. E lo fece, trattenendo il respiro, una quarantina di pose, un sospiro, un sorso di acqua e fu di nuovo in sella.

- Domani do’ le dimissioni e parto... vado via.. vado a Berlino!

Urlò, con la voce coperta a mala pena dal fragore del motore acceso. Voleva sbrigare quel lavoro in fretta. A casa aprì la porta che albeggiava. Dalla finestra della camera da letto una lama di luce rossa penetrava come fosse il segno ineluttabile di un’iniziazione.
Scaricò le foto sul suo mac bianco. Le aprì ad una ad una, un leggero ritocco e invio alla chiavetta usb. Una, due, tre, quattro, cinque, sei... i minuti passavano... sette, otto, nove, dieci, undici, dodici, tredici, quattordici... le ore passavano.... quindici, sedici, diciasette, diciotto... diciotto... diciotto... il tempo si fermò.
Cridar sentì i battiti del cuore aumentare di ritmo, come fosse iniziata una samba brasiliana in sottofondo.
Le era apparso qualcosa, fu un particolare. Un particolare che le cambiò la vita.

lunedì 15 novembre 2010

La mia Città

Mi sveglio in un altro luogo come se fosse domani
ma domani non è e non avevamo detto forse
che non lo sarebbe mai stato nei giorni scorsi
passati a parlare dell’assenza di futuro fra le mani

Mi sveglio sentendo il profumo di un corpo noto
mentre il caffè sibila in cucina e una famiglia ciarla
fra bimbe entusiaste e vecchi amici stanchi di lavoro
nelle mie mani un liquido antico e un sporca foto

Fosse un sogno o un rapimento, come navi aliene
che compaiono da film poco famosi e rinchiusi
nobili e principi nelle carceri dei cinema d’essai

Un teatro reclama il mio sguardo, una mostra mostra
tutti i propri limiti come fosse una vittima obliata
dopo tutto le gambe sono stanche e tu non ci sei più

mercoledì 3 novembre 2010

Filosofia della scena: la gnoseologia dell'identità

Iniziamo col definire una scena. Una scena è un campo esistenziale delimitato e sensoriale. Esistenziale perchè contempla la contingenza dell’essere e non il suo assoluto. Delimitato poichè comprende confini spaziali e temporale delineati. Sensoriale poichè accessibile attraverso l’esercizio dei sensi. Una scena può essere un paesaggio, un’evento, un’azione teatrale.
Definiamo successivamente lo scopo gnoseologico. Lo scopo gnoseologico è scopo di conoscenza, di apprendimento e di contatto con la scena. Esso può avere approcci differenti a seconda del soggetto conoscente. Nel nostro caso, in qualità di artista, l’approccio gnoseologico scelto è quello dell’identità. Identità in quanto ricerca di specchio concettuale sincronico fra le varie parti del sé.
Passiamo ora ad analizzare il metodo di conoscenza dell’identità di una scena. Nella definizione soggetto/oggetto, artista/scena abbiamo riproposto un dualismo fondante della filosofia occidentale post-platonica. Cartesio definisce una prima di lettura di tale dualismo parlando di res exstensa (scena) e res cogitans (artista). Nella disciplina Kantiana la cosa in sè, ovvero la scena viene recepita e formalizzata dalla cosa pensante, ovvero l’artista, attraverso le categorie a priori. Tuttavia non possiamo fermarci all’insegnamento di Kant per l’attuazione di una gnoseologia che sia post moderna e rispettosa dei paradigmi filosofici vigenti. Abbiamo bisogno di altri due importanti “amici” della conoscenza.
Hegel definisce la dialettica dello spirito, partendo da Fichte e da Shelling. L’io attraversa il contrasto con il non io, la tesi attraversa il contrasto con l’antitesi per ritrovarsi nella sintesi. Pierce invece ci insegna l’impossibilità dell’oggettivo a-soggettivistico, e lo fa ricordandoci che il soggetto è parte integrante dell’oggetto poichè immerso nella realtà sensoriale di cui l’oggetto fa parte (ermeneutica). Da questa breve esposizione cogliamo dunque, nella gnoseologia identitaria di una scena, una necessità dialettica fra soggetto/artista e oggetto/scena dove il soggetto sia parte integrante dell’oggetto e vi si fonda in una sintesi. Definiremo quella sintesi identità di una scena. O meglio identità interpretativa di una scena.
Da qui non rimane che cercare lo strumento, la via conoscitiva, l’azione conoscitiva più adatta per arrivare alla sintesi. Parliamo di via e di azione per indicare un movimento, un movimento dell’artista verso la scena, un movimento conoscitivo.
La gnoseologia ci insegna tre metodi fondamentali: induzione, deduzione, abduzione.
Iniziamo dal metodo induttivo. Il metodo induttivo, applicato al nostro caso, è il metodo che ha come protagonista la volontà dell’artista. Esso è una induzione di conoscenza, appunto, ossia è una costruzione teorica della conoscenza e quindi della scena. Si traduce nella riproduzione sensoriale di un’idea. E’ scena manichinica, ovvero artificiale elaborazione e rappresentazione di una esistenza.
Il metodo deduttivo. Esso parte invece da elementi certi, ovvero esistenziali, si chiude in esso per trarre da esso stesso elementi non ancora disvelati. E’ il metodo che ha come protagonista la realtà sensoriale dell’oggetto, ovvero della scena, e che esclude la presenza dell’artista nella ricerca gnoseologica. La deduzione è mera assimilazione di scena, è assenza di regia, assenza di interiorizzazione.
Il metodo abduttivo. Esso è invece l’unione d elementi certi e incerti, partecipazione di scena e di artista.Dall’assimilazione della scena l’artista rielabora e aggiunge elementi coerenti alla stessa, non attraverso un percorso di riproduzione e artificiosità, ma attraverso l’uso della dialettica scenica, che si traduce in suggestione.
La suggestione è il soggetto nell’oggetto, in un percorso dialettico che conduce alla sintesi ricercata.
La suggestione è contrasto che da significato e senso all’identità.
Un percorso induttivo e un percorso deduttivo sono privi di conoscenza di identità per assenza di dialettica.
Per questo sceglieremo il percorso abduttivo per conoscere l’identità della nostra scena e quindi per darle valore artistico.

lunedì 1 novembre 2010

Sonetto Disperato

Ho saputo di te da un ritaglio di giornale

uno di quelli ingialliti che butti in un angolo

e che dopo un po’ di tempo mentre riordini

ritrovi come fosse un cimelio di Roma antica

Sulla testata ho letto acido lo slogan impetuoso

un sottotitolo di rabbia e di tremendo scostarsi

eppure ho deciso di leggerti paziente e curioso

e di ascoltare il secondo suono di ogni tua parola

Ho riempito le pause e le punteggiature di senso

ho dato interpretazione fiera della dolcezza nascosta

che contenevi senza riuscire davvero a contenerti

Un giorno non ho compreso una parola di troppo

e ho pianto come un bimbo che si trova da solo

una lacrima è un fiume che porta con sé l’inchiostro.