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lunedì 18 aprile 2011

Iknos Downhill 2106 capitolo 1.1

- Porco Dio!

E la tavola si ruppe. In due pezzi, di netto.

Gecco lo sapeva bene che quel trick non era da fare. Era una sfida fra lui e quel vetusto tronco di legno che a bordo strada, sulla discesa di Montevecchio, ostruiva la via al chilometro diciotto.

Proprio non gli andava giù di scendere, camminare, saltare, ripartire. Ed era una sfida con sé stesso e soprattutto col gruppo, con la ciurma, a cui era riuscito a stare davanti come un condottiero, un capitano da crociera, in quel downhill mattiniero che di impegnativo non aveva nulla, o meglio, non avrebbe dovuto avere nulla.

- Sei un coglione

Gli urlarono in serie, come un coro che crea un’eco, un’onda d’urto che ti schianta sul muro insanguinato della vergogna.

- Gecco che cazzo hai fatto? lo sai che siamo a dodici chilometri dal rifugio

Su comandanti, era il più anziano del gruppo, capelli folti, trascurati, vesti stracciate, un transfugo di un’epoca passata.

- Porco Dio!

Fu la risposta di Gecco, come un disco punk grippato sulla puntina di uno di quei juke boxe che si vedevano nelle foto di due secoli prima, quelle sbiadite e ingiallite che parlavano dei favolosi anni sessanta.

- Che fare?

Pragmaticamente indisponente, Billy, con il suo sguardo da bambino, gli occhioni teneri che non lasciano speranza a chi osa varcarne la soglia per arrivare ai suoi pensieri più profondi.

Non era mai capitato. Cinque anni di randagismo, graffiando, sbucciando e persino spaccando aceri e bamboo, ma prima d’ora mai in modo così irreversibile, mai che le ruote non potessero correre fino al rifugio e permettere una riparazione, o una sostituzione del longboard.

- Ce lo carichiamo

Disse Su comandanti, mentre il suo sguardo, fra la sufficienza e l’ira, scorreva i volti degli altri. C’era Lion, vent’anni, dal cervello acuto quanto selvaggio. C’era Vincent, il naso otturato dal tabacco, gli occhi rossi di chi sa odiare o più semplicemente, dormire. E c’era Pam, che non la smetteva di ridere, incosciente e stronza, la ricetta giusta per l’unica donna della ciurma.

- Lo carico io

Billy il premuroso.

- No facciamo a turno

- Finiremo per non mangiare per sto coglione!

Esclamò Lion riprendendo a pedalare.

“Sardegna. Anno domini 2106, 5 aprile. Gecco ha appena rotto la tavola, è inutilizzabile, ci dirigiamo lentamente portandolo in modo alternato sulle nostre, nella speranza che reggano oltre il peso massimo consentito”

Pam annotava tutto. Lo faceva dal giorno della fuga. Era assolutamente necessario, era l’unico modo per non perdere punti di riferimento, per comprendere le anomalie, per tenere i giorni, per capire dove trovare viveri, fuoco, e ogni altro mezzo di sostentamento.

La fuga non era uno scherzo.

La fuga era con loro, nelle loro menti, nei loro cuori da più di un lustro.

Pochi avevano tentato la fuga.

Pochissimi erano sopravvissuti alla fuga.

Settantanni prima una guerra mondiale atomica aveva cambiato la storia dell’umanità. Le principali potenze, quella americana, quella russo-cinese, quella araba, si erano fronteggiate in blocchi di alleanze attraverso l’uso localizzato di ordigni nucleari.

Su sei miliardi di persone, quattro miliardi e mezzo avevano perso la vita. Il restante miliardo e mezzo era stato costretto in schiavitù mentale da una nuova forma di regime, il Nuovo Ordine Mondiale.

Attraverso l’uso massiccio e il controllo sotterraneo di tutti i media, internet, le televisioni, le radio, il NOM aveva creato un regime di terrore convincendo gli abitanti della terra, che il pianeta era totalmente radioattivo, che il solo contatto con l’aria avrebbe ucciso, che era necessario dimorare giorno e notte nei falangsteri della città, grossi comprensori dove le persone dormivano, lavoravano, mangiavano, pensavano, in base a ciò che il NOM decideva.

Chi aveva tentato la fuga era stato fulminato dall’esercito del NOM, spesso bruciato con armi al fosforo. Spesso era stato esposto come simbolo mendace della radioattività assassina.

Per Pam, Billy, Lion, Gecco, Vincent e Su comandanti era andata diversamente. Loro avevano capito. Avevano finto per molti anni, si erano accordati segretamente attraverso un codice non scritto, un linguaggio di gesti sofisticatissimo che Lion aveva elaborato con fatica.

Ed erano fuggiti.

Nel 2100 non esistevano automobili, non esistevano moto, non esistevano camion, non esistevano biciclette, non esisteva più nulla di ciò che noi oggi intendiamo come mezzi di trasporto.

Ma esisteva un vecchio negozio di longboards vicino al falangsterio di Cagliari, in Via Marche e fu lì che per caso, i sei fuggiaschi si rifugiarono una notte.

Ed è lì che i sei fuggiaschi trovarono la salvezza.

- Porco Dio!

Fu lo stesso urlo di Gecco, sei anni prima, alla vista di quelle “assi con le ruote”.

E mentre il tempo ciclicamente, tornava alla mente di Pam, il sole si ergeva caldo a dare un ritmo veloce, un ritmo che non perdona, a quella ciurma lenta e zoppa, in una mattina primaverile, di un mondo nuovo fuori dal nuovo ordine mondiale.

mercoledì 8 dicembre 2010

A Volte

A volte tu sei così impudente

nelle tue parole mosse e nitide

come l’acqua di una diga rotta

che travolge e conduce al largo


A volte tu sei così inafferrabile

nei tuoi pensieri che sfregano

sui cieli verdi del nostro mondo

e scintillano impossibili incendi


A volte tu sei così irregolare

come un piano jazz di Allevi

da illuminare ascose armonie

e improbabili visioni di Escher


A volte tu sei così impaziente

come uno stormo di rondini

che non desiderano andare via

da un autunno di foglie e dolore


A volte tu sei così indefinita

da ascoltarmi in ogni folle discorso

e attender lieta che una notte

non sappia finire per merito o colpa.

domenica 21 novembre 2010

Tirrenia... Siamo alla frutta? no.. ci fosse almeno il ristorante

I Sardi stanno subendo una regressione evoluzionistica senza precedenti. Da Italiani minori, status ottenuto nel 1861 e riaffermato saldamente grazie alla complicità ferocemente sadomasochistica del signor Emilio Lussu nel 1945, la nostra involuzione sta raggiungendo il livello più simile alla dimensione umana, del mondo animale, il suino.

Ora è vero che i maiali sardi sono razza pregiatissima, dal sapore eccellente, ma da qui a traslarli, per metominia, a tutta la popolazione dell'isola, ne passa davvero tanto.

La continuità territoriale è di certo un diritto acquisito e finora garantito, a detta di chi ci governa, ciò che in verità manca, rispetto all'Italia è la continuità di dignità.

Provate a prenotare una nave per Palermo. Unica compagnia disponibile, Tirrenia. Il sistema vi rimanda tre o quattro volte, in attesa della messa in disponibilità. Primo disagio. La società è in amministrazione straordinaria, e va bene, inghiottiamo e procediamo alla prenotazione. Il costo totale è esorbitante, non straordinario, ma normale. Duecentocinquanta euro per due persone e auto al seguito.

E va bene, inghiottiamo anche il prezzo, la società è in A.S. ma fornirà l'ordinario servizio di trasporto, pensiamo.

Quando saliamo sulla nave ci rendiamo conto di che cosa significhi. E' una nave merci, non c'è un bar, non c'è il ristorante, le cabine sono in pessime condizioni. La nave puzza di maiali, di bestie, di prodotti chimici.

La Tirrenia riceve ogni anno contributi pubblici statali e regionali per garantire il trasporto dei residenti sardi nel resto d'Italia. Gode di una situazione di monopolio. Nonostante questo è in via di fallimento. Da sempre non garantisce occupazione al popolo sardo. Da sempre non garantisce un servizio cortese ed efficiente, pulito e di qualità.

In un certo senso ci eravamo anche abituati a questa sorta di degrado, ci poteva servire per vederci migliori, per immaginare qualcosa di diverso, di gestito direttamente da noi sardi. Ma il declassamento di specie è davvero troppo.

Chissà, forse faremo fatica ad abituarci ad essere trattati da maiali. Forse.

Cridar Z - Numero 1 Pagina 1 - Lame di luce rossa

Cridar uscì sbattendo la porta. L’ufficio del direttore era separato dall’ampio open space solo attraverso un sottile cartongesso e per un attimo i pochi colleghi presenti ebbero la sensazione che potesse crollare. Non era insolita a gesti di stizza, ma forse questa volta aveva davvero esagerato. E tutto per uno stupido lavoro. A Cridar non andava giù, proprio non riusciva a capire. Perchè mandare lei a Sassari? Era l’una di notte, un omicidio, prostituta sgozzata, a fare foto con il flash probabilmente, e a non dormirci la notte. Un lavoro privo di aspirazione artistica, solo documentare, cronaca, mai sopportata!
Cridar che andava a teatro alla prima del lirico. Cridar che seguiva le mostre e faceva ritratti agli attori. Cridar che si lanciava nei concerti come se fosse una reporter di guerra.
Il rombo della sua moto fu aggressivo come mai. Ducati rossa fiammante appena lavata, il colore opaco brillava nella luce gettata da un lampione malandato della città algherese.
La Carlo Felice non fu molto clemente. Buche, così tante che le venne in mente il suo ultimo servizio fotografico: l’inaugurazione di un campo da golf nei pressi di Pula.

- Mi vogliono buttare fuori

Pensò. Era chiaro. Una lenta scalata verso il basso, una discesa rapida e controllata dall’alto. Stava precipitando e non sentiva neppure l’ebbrezza di una vertigine a cui appendersi. Ci doveva essere qualcosa di sballante ad essere declassata. Ragionò sui possibili scenari che le si aprivano. Lavorare meno, occuparsi meno della luce, della qualità della posa e della post produzione. Ma nulla di tutto questo la eccitava. Nulla di ciò che non fosse fare le cose che aveva sempre fatto, le dava un briciolo di adrenalina.
Quando arrivò sul posto, il primo suggerimento tecnico che le diede la scena fu quello di vomitare. Avrebbe voluto rilasciare accanto ai cassonetti della pattumiera, non troppo distanti, in quel vicolo buio e dagli odori di plastica muffita, che si sommavano insolenti al puzzo di cadavere, tutto il kebab che aveva mangiato la sera precedente.
Peccato lo avesse ampiamente digerito.
Si avvicinò al corpo senza vita sospirando.

- Se vogliono che mi licenzi, così hanno trovato il modo giusto

Davanti a lei una decina di altri reporter, ben piazzati, a spintonarsi per avere la posizione migliore, quella più vicina, chi cercava di mettere ben a fuoco lo schizzo di sangue sotto la gola, chi invece si concentrava sull’occhio vitreo.
Cridar capì solo allora che cosa significasse, banalmente parlando, essere un fotografo. Il suo mondo immaginario, fatto di luoghi virtuali pieni di gente col berretto che sfidava le ombre per uno scatto perfetto, si estinse come si può estinguere una stella che ha esaurito il proprio corso, e lasciò un buco nero nello stomaco e nel cervello della giovane, che neppure un Montenegro con ghiaccio sarebbe riuscito a colmare.
Si allontanò una decina di metri e cambiò obiettivo. Mise uno zoom abbastanza potente, un 200 di profondità massima e da lontano puntò il corpo esangue. C’era luce sufficiente. i fari delle volanti della polizia, i flash abusati di quegli zombie e beceri esecutori. Si poteva fare. E lo fece, trattenendo il respiro, una quarantina di pose, un sospiro, un sorso di acqua e fu di nuovo in sella.

- Domani do’ le dimissioni e parto... vado via.. vado a Berlino!

Urlò, con la voce coperta a mala pena dal fragore del motore acceso. Voleva sbrigare quel lavoro in fretta. A casa aprì la porta che albeggiava. Dalla finestra della camera da letto una lama di luce rossa penetrava come fosse il segno ineluttabile di un’iniziazione.
Scaricò le foto sul suo mac bianco. Le aprì ad una ad una, un leggero ritocco e invio alla chiavetta usb. Una, due, tre, quattro, cinque, sei... i minuti passavano... sette, otto, nove, dieci, undici, dodici, tredici, quattordici... le ore passavano.... quindici, sedici, diciasette, diciotto... diciotto... diciotto... il tempo si fermò.
Cridar sentì i battiti del cuore aumentare di ritmo, come fosse iniziata una samba brasiliana in sottofondo.
Le era apparso qualcosa, fu un particolare. Un particolare che le cambiò la vita.